Lavorando come consulente legale soprattutto sul mercato del web, per freelance digitali e creativi, mi trovo spesso a revisionare contratti che a dire il vero andrebbero, utilizzando un termine un pò sopra le righe… bruciati e rifatti (e quindi, spesso, è quello che faccio).
Sono consapevole che molti lavoratori autonomi che svolgono le nuove professioni a partita iva nel mercato digitale, dai social media manager agli influencer o più correttamente web content creator, spesso lavorano anni per le stesse aziende, piccole, medie o grandi che siano, ma senza un vero contratto per cui, come consiglio anche in questo articolo, sono loro stessi a redigere il contratto da firmare congiuntamente all’azienda per la quale prestano regolare prestazione.
L’idea di proporre un contratto che parta dal professionista digitale stesso è una buona idea, è un buon modo per tutelarsi e per diffondere nelle aziende, anche piccole, la cultura della tutela reciproca.
Tuttavia spesso i creativi sono creativi anche nella redazione dei contratti, diventano “legali presso se stessi” per un giorno e inseriscono cose a caso, che non hanno ragion d’essere.
Ricordiamo che se da un lato il contratto che usiamo all’interno della nostra attività lavorativa può essere un grande alleato, dall’altro potrebbe essere fonte di problematiche se non strutturato in maniera corretta e pensata.
Prima di elencare alcune cose che sconsiglio di inserire in un contratto, vorrei dare tre indicazioni preliminari di cose da non fare, mai!
- Scopiazzare i contratti presi dal web;
- Scrivere accordi complessi, con paroloni incomprensibili per fingere di saperne qualcosa;
- Rivolgervi ad un consulente legale dopo aver voi scritto il contratto, “per revisione” (abbiate pietà!)
Sono l’Avv. Valentina Fiorenza,
esperta in diritto digitale, consulente legale preferita dai freelance creativi, dai nuovi professionisti del web e dai loro clienti.
Il primo suggerimento si riferisce soprattutto ai documenti, che sono veri e propri contratti, che sottoscrivono ad esempio le persone che si iscrivono alla nostra newsletter (scopri come fare una newsletter in regola) o le condizioni generali di vendita per gli acquisti che passano dal nostro sito web.
E’ molto pericoloso copiare i documenti legali di altri, perché riportano le necessità di altri, che possono essere (anzi sono sempre) molto diverse da caso a caso.
In un altro post ti consiglio anche cosa sapere prima di firmare il tuo contratto da freelance.
Inoltre, è sempre bene conoscere la differenza (e le cose che hanno in comune) contratto e preventivo.
Veniamo all’argomento del post del giorno:
Cosa non inserire in un contratto.
Indicazioni vaghe
Un contratto non è la poesia di Natale, non è un messaggio di auguri o il nostro daily journal. Cerchiamo dunque di essere precisi.
Ad esempio, se scriviamo un contratto da far firmare a un cliente o ad un fornitore per le nostre prestazioni di Social Media Manager, facciamo un elenco preciso del numero dei post mensili, del numero di contenuti digitali nuovi che andremo a creare (quante foto, quanti video, quante uscite faremo per realizzarli) e con che periodicità;
Se invece si parla di contratto per influencer, possono essere così complessi da avere bisogno di un’analisi più approfondita, e te la lascio qui.
Riferimenti normativi non controllati
La legge è una grande alleata, i codici sono nostri amici.
Ma sono complessi, molto (del resto, se noi avvocati ci dedichiamo un’intera vita, ci sarà un motivo).
Evitiamo dunque di inserire nei nostri contratti dei riferimenti normativi a casaccio; rischiamo di fare pasticci notevoli e richiamare leggi che non hanno molto a che fare con il nostro caso e il nostro contratto, con quello che vogliamo e che ci serve. A quel punto, se proprio dobbiamo, richiamiamo le “norme in materia”.
L’arbitrato
Sarà la parola, sarà quel ricordo un pò da Holly e Benji, sarà che sembra una parola figa ma spesso e volentieri mi ritrovo a leggere contratti dove è previsto, come forma di risoluzione delle controversie tra le parti, l’arbitrato.
L’arbitrato è un istituto previsto dalla legge per “velocizzare” le pratiche della giustizia che ahimè, sappiamo, non essere proprio dei fulmini.
Nell’arbitrato le parti che si sono accordate per risolvere una controversia, nominano il collegio arbitrale, composto di norma da tre “giudici” i quali, in base alle norme e alle risultanze portate da una e dall’altra parte, decidono la questione emettendo un “lodo” che ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ed è impugnabile, ma solo per alcuni motivi (e già questo dovrebbe farci capire che non è una cosa da prendere alla leggera).
Per quanto abbia tempi più veloci del percorso legale comune, l’arbitrato è prima di tutto una tipologia di risoluzione abbastanza complicata e costosa, in genere utilizzata da grandi aziende e multinazionali, associazioni sportive e grossi imprenditori che preferiscono risolvere controversie in modo discreto e soprattutto veloce, senza attendere i tempi della legge.
Evitiamo dunque di inserirlo perché lo abbiamo visto in qualche format sparso per la rete perché è un elemento da valutare molto attentamente, molto complesso e per il 99% delle controversie non è affatto la strada più adatta (salvo che a leggermi ci siano gli amici delle multinazionali e in quel caso, beh, a colazione pane e lodi arbitrali!).