Lo stato dell’arte sull’empowerment femminile, perché siamo indietro e cosa deve cambiare da parte della legge e delle donne affinché il sistema cambi.
Parlando di Empowerment femminile, non so se ci avete fatto caso, ma non si contano i convegni e gli approfondimenti sul ruolo della donna… dopo la pandemia.
Risposta veloce: 3/4 delle persone che hanno perso il lavoro in pandemia sono donne, ergo, per il nostro sistema economico e sociale, il ruolo della donna è a casa, a badare a figli, nipoti e anziani, a fare da ammortizzatore sociale… esattamente come prima della pandemia.
Approfondiamo con dati, analisi e possibili soluzioni.
Tempo fa ho tenuto un’interessante e illuminante live su Instagram con Ami F., brillante bancaria e divulgatrice di educazione finanziaria destinata soprattutto alle donne (seguila sulla pagina Instagram Pecuniami).
Puoi ancora vedere la diretta nelle mie IGTV, oppure leggerne l’output e l’analisi nell’articolo che stai leggendo.
Vediamo che cosa, a parte i proclami, non sta funzionando nel processo di empowerment femminile [e no, non è un caso se la riflessione nasce da un’avvocata e una bancaria, perché è proprio una questione economica e legale, prima che sociale].
Che cosa è l’empowerment (e perché, allo stato dei fatti, non funziona)
Con la parola empowerment si intende un processo di crescita di una persona o di un gruppo, basato sull’incremento della fiducia e dell’autodeterminazione.
Con empowerment femminile si intende tutta la serie di iniziative istituzionali, culturali e di rete volte a rendere le donne più presenti nel mondo del lavoro e più “libere di scegliere” partendo da un lavoro di consapevolezza civica oltre che di genere.
Bel concetto, belle iniziative, tutto molto bello e tutto molto “inspiring”.
Peccato che, nulla di tutto questo ha senso, se si valuta che, allo stato dell’arte, la presenza femminile è esclusa a livello endemico dal mondo della produzione.
Ami F. fa alcuni esempi illuminanti, utili anche sul piano della nostra cultura generale con tanto di dati e statistiche alla mano.
Lo sapevi che…
- …gli abiti anti infortunistici e persino i giubbotti anti proiettili in molti paesi (anche in Europa) sono disegnati e progettati solo per uomini, e alle donne, semplicemente, si dà la taglia S-XS?
(nel caso dei giubbotti anti proiettile, spesso le poliziotte acquistano a spese proprie altri modelli – rari – studiati anche per chi ha il seno). - …la progettazione dei bagni nei luoghi pubblici tiene presente il numero di utenti potenziali nonché il tempo medio di tempo di permanenza e utilizzo, valutandolo solo sul tempo di un uomo adulto e sano, ed è per questo che nel bagno delle donne c’è sempre la fila?
Non solo le donne hanno bisogno di diversi secondi in più per usare un wc e hanno giorni di mestruo da gestire in modo igienicamente sostenibile, ma sono anche coloro che portano i bambini in bagno, impiegando altri secondi sconosciuti nel bagno degli uomini; il bagno delle donne è anche sempre il solo con fasciatoio o sanitari per disabili. Tutto questo non interessa al mondo della progettazione, non sono dati soggetti a studio e per questo i luoghi pubblici non hanno un numero sufficiente di sanitari per l’utenza femminile. - …le sole persone esenti dall’obbligo di uso di cinture di sicurezza sono forze dell’ordine e donne incinte?
Motivo: alle forze dell’ordine servono secondi preziosi per le azioni di tutela, mentre alle donne incinte le cinture possono fare danni.
Non so se è chiaro: un corpo generativo, alla base dell’evoluzione della specie, che necessita di maggiore tutela, non può usare uno dei principali dispositivi di tutela legalmente obbligatori perché pericolosi per il corpo generativo alla base dell’evoluzione della specie.
E questo non fa che sancire una cosa che a pensarci fa diventare matti, altro che empowerment: il mondo produttivo non studia, non analizza e non prende minimamente in considerazione la donna come elemento di studio.
I soli casi studio in cui le donne vengono prese in considerazione per legiferare sono, guarda caso, solo quelli relativi al welfare, alla cura e all’accudimento familiare.
Ne è un esempio l‘Opzione Donna, riconfermata anche nella Legge di Bilancio 2021 (L. n. 178/2020); questa legge rende possibile per le donne andare in pensione con 35 anni di anzianità e un’età di 58-59 anni.
Ovviamente, la ratio alla base dell’opzione donna è la consapevole prassi che vede le donne indispensabili per prendersi cura di nipotini che i neo genitori in famiglia non sanno dove mettere (perché lo Stato non se ne occupa), badare ai genitori ultra ottantenni propri e del marito (perché lo Stato non se ne occupa).
Ovviamente, con livelli di pensione più bassi perché le donne hanno avuto carriere più brevi, meno retribuite, e discontinue (perché lo stato non si è occupato della loro maternità e del loro inserimento nel mondo del lavoro).
Insomma, anche l’Opzione Donna, di certo nato con tutti i migliori intenti, non è di fatto che un ulteriore modo per ri-allontanare le donne dal mondo produttivo, per fungere da ammortizzatore sociale laddove lo Stato non se ne è occupato e continua a farlo poco.
Il principale ostacolo al reale empowerment femminile è la struttura del sistema produttivo, oltre che politico, costruito intorno all’uomo adulto, sano.
Un vero errore non solo sociale ed etico, ma di sistema, una falla economica, dal momento che lo Stato Social non è in grado di mantenere una società in cui lavorano e pagano le tasse solo maschi sani dai 30 ai 70 anni.
Possibili soluzioni
Difficili, a volte brutte, ma le sole [forse] efficaci
Nella live con l’esperta in economia Ami F., che, ripeto, troverai anche nelle mie IGTV su Instagram con il titolo di “Non è tutto oro quel che luccica”, diamo delle possibili soluzioni e soprattutto dei modi per ribaltare l’ottica alla base di questo sistema.
Le prime soluzioni, le chiediamo al legislatore; le seconde, possiamo cambiarle noi nel quotidiano (perché il privato è pubblico, care mie!)
Al legislatore chiediamo di:
- Riprendere in considerazione l’approvazione del congedo per chi soffre di dismenorrea (ché no, parlare di mestruazioni non dà scandalo),
- Togliere l’iva dagli assorbenti e dai prodotti di igiene indispensabili per le donne che no, non sono “beni di lusso” e quindi non possono essere tassati al 22%,
- Includere finalmente la componente femminile negli studi di progettazione di ogni prodotto, bene e servizio relativo al mondo produttivo,
- Introdurre l’obbligatorietà delle quote nei CDA.
Lo so, è una cosa odiosa perché è odioso che ce ne sia bisogno ma soprattutto perchè non siamo panda in via d’estinzione.
Quello che mi perplime delle “quote rosa” è che vengono usate e strumentalizzate da un mondo governato da uomini. La mia personalissima sensazione sulla “quota rosa” è sempre stata che “dovessero” inserire una donna “a caso” in un determinato posto. La donna “a caso” in questione si comportava, salvo rari e illuminanti distinguo, nè più e nè meno come il sistema che l’aveva inserita lì. Le “quote rosa” così non servono proprio a nulla. Proprio perchè non siamo panda in via d’estinzione (e due).
Tuttavia occorre osservare che il mondo della produzione e del lavoro è strutturato male, è strutturato in modo tale che una donna sia scomoda al mercato e all’azienda. Quindi, finché non ci sarà una sufficiente massa critica di donne nelle aziende, il sistema non si adeguerà e continuerà ad usare le donne solo come badanti, baby sitter, ammortizzatori sociali (e continueremo ad avere poliziotte con giubbotti antiproiettili non adatti e donne incinte senza cinture di sicurezza).
Con le quote obbligatorie rendiamo obbligatorio un cambio di passo, si crea la massa critica che obbliga il legislatore ad adeguare tutto il sistema.
Ovviamente sarà necessario anche un cambio di mentalità, ma la storia ci insegna che la mentalità cambia anche quando cambia la legge (vedi la percezione sociale sul divorzio o sul delitto di onore o ancora sullo stupro come reato contro la persona e non contro la morale, cambiate proprio gradualmente con il cambiare delle leggi in materia).
Alle donne (e agli uomini) proponiamo di…
- Normalizzare la prassi, già legalmente possibile, del congedo parentale condiviso,
non solo perché vivere la genitorialità condivisa è un privilegio a sua volta, ma anche perché finché genitorialità peserà solo sulla vita lavorativa delle donne, non cambierà il sistema. - Essere assertive, senza paura e sensi di colpa.
Sul lavoro (ad esempio, facendo capire nei colloqui che alcune domande non sono lecite), e a casa, chiedendo ai nostri compagni di prendere i bambini a scuola, stare a casa quando sono malati, accudire i genitori anziani esattamente come faremmo noi, ma dividendo l’onere in due; - Smettiamo di interiorizzare e ripetere concetti come
“ma con i soldi del lavoro mi ci pago la baby sitter, non ne vale la pena”. [Non è vero: ci paghi oggi la baby sitter, ma quando non ti servirà più avrai un lavoro, scatti di carriera, una pensione migliore, maggiore auto determinazione];
“ma le donne si fanno la guerra tra di loro, non sanno fare squadra” [Non è vero: se accade è perché abbiamo meno opportunità e ce le dobbiamo contendere tra poche. Se avessimo quanto ci è dovuto, non ci sarebbero guerre di supremazia ma solo comunissime simpatie/antipatie come tra tutti gli umani];
“mi trovo meglio con gli uomini” [forse è solo perché hai interiorizzato chi domina il sistema, e stare dalla parte dei vincenti ci piace];
Hai valore solo se “hai le palle”: per quanto in buona fede, è un complimento che sancisce hai valore solo in quanto copia di un uomo.
Insomma, un cambiamento è possibile. Però, signore mie, è ora di capire che non valiamo meno di qualcun altro. Non valiamo solo in quanto “aiuto di”, “compagna di”, “mamma di”. Valiamo in quanto donne, nella qualità di esseri umani. E’ ora di mettercelo nella zucca. Tutte insieme.