Etica aziendale e etica produttiva nonché rispetto della legge hanno un’importanza pari alla qualità di un prodotto nella scelta di acquisto del consumatore.

Può la legalità e l’etica di un brand essere un discrimine per il consumatore?

Mi sono pubblicamente posta questa domanda tempo fa su Instagram, con successiva riflessione e interazione da parte di migliaia membri della mia community di blonders (della quale ti consiglio caldamente di iniziare a far parte); bene, cari imprenditori e care imprenditrici, le risposte, salvo qualche eccezione, sono state abbastanza allineate.

Annus domini 2021, epoca delle comunicazioni veloci e dell’attesa di rinascita post pandemica, i consumatori si informano sempre di più sulle basi etiche di (quasi) qualunque tipo di azienda in ogni settore merceologico e tale consapevolezza determina le scelta di consumo.

Non ci sorprende, dunque, che molte aziende puntino, nella loro comunicazione, proprio su alcuni principi etici relativi alla salvaguardia dell’ambiente, il rispetto dei lavoratori, il rispetto dei consumatori e il rispetto della legalità.

Alcuni esempi di etica aziendale, diventata oggetto di intere campagne di marketing

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Ph. Adam Jang, unsplash

Esemplare nel marketing dell’etica sono Coop e Conad, che da diversi anni, con i loro spot, mettono l’accento sul rispetto dei lavoratori, strizzando l’occhio ad alcune dinamiche green, zero waste e impatto zero.

Poi, per carità, i prodotti derivanti da allevamenti intensivi nel banco surgelati li troviamo lo stesso, così come troviamo le uova da allevamento intensivo a terra, biologico e in gabbia. Ma qui, siamo anche noi a dover scegliere. E possiamo, ah, se possiamo!

Diciamo che per i supermercati, che hanno a che fare con catene di approvvigionamento molto vaste, è difficile non cadere in contraddizione, essendo per altro, l’apertura massiva di supermercati in tutti i centri di grandi, piccole e medie dimensioni, responsabile di buona parte delle chiusure di piccoli esercizi commerciali che riempivano fino a vent’anni fa le nostre periferie.

Veniamo al fashion, altro ambito il cui Karma necessita di pulizie primaverili, di tanto in tanto.
Una recente dichiarazione di Re Giorgio (Armani), davanti al quale ci inchiniamo con deferenza, ci dice che questa crisi che stiamo vivendo deve portare un’idea di produzione più sostenibile, rispettosa di stagioni e della manodopera sartoriali.

La pandemia ci ha dimostrato che non possiamo continuare ad alimentare una società usa e getta, privando la Terra delle sue risorse in nome dell’apparenza. Per questo è ora che la fashion industry torni ad essere un sistema a misura d’uomo”

Giorgio Armani

Con tutto il rispetto per l’impatto autorevole che Re Giorgio ha sul mondo della moda e del costume, già dal il 2013 Orsola de Castro e Carry Somers sono state madri del movimento Who Made My Clothes? (chi fa i miei vestiti?).

Diffusosi a macchia d’olio e per lo più dal basso ma in modo molto importante dopo l’esplosione e la carneficina di operai e operaie in una fabbrica in Bangladesh, che producevano abiti per le principali marche di fast fashion globale, il movimento mira ad insegnare alle persone a guardare l’etichetta dei propri capi, prima di acquistarli, all’urlo di “se è stato prodotto in un paese in cui i diritti dei lavoratori non sono rispettati, desisti”.

Come vediamo, ci può essere massima trasparenza nell’etica produttiva di un’azienda o di un intero comparto, ma è la sfumatura tra ciò che è davvero etico e cosa non lo è che sfugge, spesso, ad una chiara inquadratura.

Da giurista, sono fiera di poter dire che la legge e la legalità lasciano meno dubbi: per quanto una legge possa essere soggetta, in alcuni casi, ad interpretazione, per quanto quell’interpretazione possa essere ampissima e lasciare molti margini di manovra, essa pone dei paletti e delle regolamentazioni al mercato ed è bene che impariamo a scegliere i prodotti che consumiamo anche in base a quanto un’azienda dimostri di tenere alla legalità.

Consigli per aziende e per consumatori

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ph. Unsplash

Posso mai lasciarvi così, con tante domande e poche risposte? Certo che no.
Ecco allora tre consigli e moniti per aziende e soprattutto per noi consumatori (che abbiamo spesso un impatto notevole sulle scelte etiche delle aziende).

Cosa ha un impatto positivo sull’orientamento all’acquisto del consumatore (talvolta persino a prescindere dalla qualità del prodotto)

  1. Etica produttiva: rispetto dei lavoratori
  2. Etica produttiva: rispetto delle risorse ambientali e scelte green (attenzione, oggi le persone sono sempre più brave a riconoscere la differenza tra reale rispetto per l’ambiente e il così detto green washing, che sarebbe una sorta di “conversione etica e ambientale di facciata”. Proprio perchè il tema comincia a diventare molto trendy e sentito dai consumatori, tutto diventa “bio”, “ecologico” e “green” senza che però lo sia davvero e convintamente. E’ un pò come farsi una doccia di 40 minuti con l’acqua sempre aperta e poi inorridire davanti ai biscotti con l’olio di palma).
  3. Legalità e rispetto delle normative, a partire dai documenti online a garanzia e tutela dei dati dei consumatori sui siti internet.

Scelte etiche dei consumatori: cosa possiamo fare per migliorare il mercato

Un mercato migliore, dipende anche da noi. Anzi, mi sbilancio, dipende soprattutto da noi.
Dal nostro rapporto con il consumo a da quanto la bulimia da acquisto entra a far parte della nostra vita.

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Ph. Unsplash
  1. Il principio di guardare l’etichetta e la provenienza dei capi di abbigliamento non è male, come azione e principio di scelta di acquisto. Possiamo scegliere capi e prodotti che non comportano sfruttamento e povertà.
  2. Consumiamo di meno, in ogni settore. Nell’abbigliamento come nel food, cerchiamo di essere meno bulimici, perché l’acquisto veloce e compulsivo, spesso super economico, fa male ai diritti umani e all’ambiente. E fa male anche a noi, illudendoci di aver colmato un vuoto che ha in realtà bisogno di altri tipi di risorse, non in commercio e di sicuro non a 9,90 euro.
  3. Il vintage è green. Dare una seconda possibilità a capi di seconda mano ben tenuti non è solo una cosa creativa e alla moda, è anche una scelta etica. E ci sono centinaia di boutique deliziose (anche online) tra cui scegliere.
  4. Chiediamoci se, in un ambiente con una biodiversità come quella del bacino mediterraneo, sia davvero necessario consumare uva a gennaio e fragole ad ottobre. Seguiamo le stagioni, sono qui per un motivo.
  5. Riduciamo anche la nostra velocità di navigazione online: leggiamo i contratti di vendita, prima di fare quel click. Leggiamo le informative sulla privacy; scegliamo di acquistare e navigare sui siti che ci danno (bene) la possibilità di conoscere i nostri diritti e scegliere quale consenso dare. Se queste cose ci vengono spiegate bene, vuol dire che l’esercente che sta proponendoci un bene/servizio in vendita, è interessato al rispetto dei nostri diritti. E se è sinceramente interessato al rispetto dei diritti dei suoi consumatori, quello è un buon indizio che sia altrettanto sinceramente interessato ai diritti dei lavoratori e del mondo che gli sta intorno.
  6. Affidiamoci più spesso a sarti e artigiani. Costano troppo?
    Molto probabilmente un maglioncino o una giacca sartoriale non hanno un costo superiore al telefono dal quale stai leggendo questo articolo.