Oggi parliamo delle regole di Instagram, spesso impropriamente definite, persino da alcuni media, “legge di Instagram”: cosa prevede il regolamento, quali dati vengono raccolti, cosa possiamo e cosa non possiamo fare.
Che cosa accettiamo, senza leggere, nel 90% dei casi, quando ci iscriviamo ad Instagram?
Che cosa prevede il regolamento di Instagram in estrema sintesi?
Partiamo dicendo che il termine più opportuno da utilizzare è proprio regolamento di utilizzo o, meglio, condizioni generali di contratto, perché di fatto noi stiamo accettando un contratto con un’azienda per utilizzare un prodotto o servizio che questa ci offre.
Parlare di legge di Instagram è improprio:
Instagram non è un soggetto che può legiferare.
Legirefano gli Stati o le confederazioni di stati, composti da rappresentati che hanno ricevuto delega dai cittadini di determinare le norme di comportamento condivise dalla comunità.
E, come è evidente, non è il caso di Instagram, che è un servizio dell’Azienda Facebook Inc., con sede legale a Palo Alto, California e non un organo governativo di un mondo parallelo, bensì un servizio fornito da un’azienda a vantaggio di un’azienda e che produce reddito per la suddetta.
Quelle che noi accettiamo, all’atto dell’iscrizione a Instagram si chiamano condizioni contrattuali, violando le quali l’azienda si può rivalere su di noi in vari modi e a vario titolo.
Ecco le regole di Instagram che accettiamo quando entriamo nella “community”
Spoiler: le regole delle condizioni generali di contratto di Instagram sono abbastanza varie ed eventuali. A tratti potremmo dire…”sorprendenti”.
- Instagram non può essere usato da soggetti con meno di 13 anni;
- Instagram non può essere usato da soggetti che hanno provvedimenti di interdizione dell’uso di questi mezzi da parte dello Stato, a seguito di procedimenti penali;
- Instagram non può essere usato da soggetti condannati per violenza sessuale.
E fin qui, ci sembra tutto onesto e opportuno.
Tuttavia, qualunque utente sa bene che Instagram non ci chiede né carta di identità (motivo per cui sono in realtà moltissimi i minori di 13 anni che usano la piattaforma), tanto meno l’upload del casellario giudiziale. Diciamo che Instagram mette queste norme nel suo regolamento per de-responsabilizzarsi, cercare di evitare utenti pericolosi o violenti con deterrenti nel regolamento, poggiandosi su una sorta di auto dichiarazione da parte dell’utente di non appartenere a nessuna delle categorie di persone il cui utilizzo è vietato.
Poi, Instagram ci dice anche come possiamo usare la piattaforma e che cosa non possiamo fare.
- Su Instagram non possiamo usare identità diverse o fornire informazioni inesatte.
Il che è una regola controversa dal momento che in realtà Instagram ci dice subito dopo che non è necessario, per registrarsi, fornire la propria identità o renderla pubblica. - Su Instagram, l’utente non può agire in modo illegale, ingannevole o fraudolento, insomma, non può infrangere la legge di ogni Stato. Anche questo punto è interessante, dal momento che Instagram è usato trasversalmente in Stati con normative molto diverse tra di loro.
- L’utente di Instagram non può adottare comportamenti volti a interferire o pregiudicare il funzionamento previsto del servizio (ad esempio, non puoi usare bot o comprare follower e usare sistemi di crescita manipolata e non organica).
- Un utente non è autorizzato a vendere o trasferire aspetti del proprio account: ad esempio, non possiamo vendere un profilo.
- Come già detto in modo più approfondito in questo articolo sulla violazione del copyright su Instagram, non puoi neanche qui violare le normative nazionali vigenti sul Copyright, cioè non puoi scaricare e pubblicare nella tua gallery una foto non tua o per la quale non hai i diritti di utilizzo.
I nostri contenuti appartengono a Instagram?
Sfatiamo un altro luogo comune ancora diffuso: Instagram non rivendica la proprietà dei nostro contenuti, ma sancisce, sempre nelle condizioni generali di contratto, di avere una licenza di utilizzo non esclusiva; insomma, Instagram si avvale del diritto di prendere il contenuto e farlo girare nelle proprie aziende correlate, cioè Facebook e Messenger.
Veniamo ad un aspetto molto spinoso e, forse, il più controverso:
Quali dati raccoglie Instagram?
Instagram, come tutte le aziende della famiglia Facebook, raccoglie un quantitativo esorbitante di dati, e questa è la notizia con la quale è bene fare i conti.
Per usare Instagram noi diamo all’applicazione l’accesso alla nostra fotocamera… ma anche a tutto il telefono e ai dati in esso contenuti, cioè alla nostra scatola nera, altra riflessione con la quale è bene fare i conti.
Instagram acquisisce notizie su reti e connessioni (cioè sui nostri amici, le pagine che visitiamo, i gruppi nei quali siamo e prodotti che guardiamo e acquistiamo).
Se sincronizziamo i contatti con il nostro dispositivo, Instagram accede a tutto quello che abbiamo sul telefono, compresi documenti, foto, messaggi alla mamma e al fidanzato, controlla la durata delle nostre attività (tipo, per quanti secondi guardiamo quel paio di scarpe in una sponsorizzazione? Se per più di tot secondi, stiamo pur certi che quella pubblicità ci riapparirà in giornata).
E poi, controlla quali transazioni economiche facciamo dal cellulare e se facciamo donazioni e a chi.
Inoltre, Instagram acquisisce informazioni sul nostro dispositivo, se è mobile o tablet o pc, che tipo di ram e modello, che tipo di connessione usiamo, quale è il punto di accesso della nostra connessione.
Cosa ancora più “interessante” è che Instagram accede anche alle informazioni fornite inconsapevolmente dai nostri contatti.
Che cosa fa Instagram con tutti questi dati?
Ormai è nota la frase “Se non paghi, la merce sei tu”… o i tuoi dati personali, parafrasando in termini più attuali.
I tuoi dati, semplicemente, vengono ceduti o venduti o usati per fini commerciali, cosa che, ad oggi, e dopo una serie di procedimenti culminati in maxi multe da parte dell’Autorità Garante per la Privacy, ammette più o meno candidamente nell’incipit delle proprie condizioni contrattuali.
Le sponsorizzate di Facebook e Instagram, ad esempio, funzionano così bene e ci mostrano proprio i prodotti che vorremmo, non certo grazie al concetto fumoso di “algoritmo” ma grazie alla complessissima rete di dati personali che Facebook Inc. acquisisce.
Ogni azienda che fa una sponsorizzata sulle piattaforme social, di fatto, paga per avere accesso a dei dati e per far sì che sulla base di quelle informazioni i propri prodotti possano capitare sul tablet delle persone pronte o predisposte all’acquisto.
A volte i nostri dati vengono forniti ad agenzie legate a partiti politici e quindi usati anche per fini elettorali e anche – e soprattutto – in questo caso, il Garante per la Privacy ha avviato delle indagini abbastanza complesse per permettere agli utenti di utilizzare i social network e la rete in generale in maniera più trasparente e consapevole.
Immaginate quanto sia pericoloso, per il processo di formazione democratica, che un’azienda ceda ad altri i miei dati (dai quali si possono desumere i miei interessi ma anche le mie paure, le mie aspirazioni e le mie preferenze sociali) in modo tale da essere spinta, senza che me ne renda conto, a prendere una determinata decisione in sede elettorale…
Vi faccio un esempio: i miei dati dicono che sono una persona che è preoccupata per l’impatto delle (inesistenti e/o ondivaghe) politiche migratorie del nostro Paese. Per un certo periodo di tempo verrò sottoposta a notizie che esaltano solo il lato peggiore del fenomeno migratorio e alle elezioni io deciderò di votare per quella forza politica che si propone di ergersi a tutela della popolazione contro le “invasioni barbariche” (vi ricorda qualcosa?).
No, non è fantascienza, pensate ad esempio al caso Cambridge Analityca e a quello che si è portato dietro.
Il concetto da portarsi a casa è che più scegliamo di condividere con la rete, più questa creerà dei nostri modelli assolutamente fedeli. Più dati immettiamo nei sistemi (anche inconsapevolmente), più questi avranno gli strumenti per indirizzarci verso determinate scelte. Di tutti i tipi.
Concludo con una storiella (che non è una storiella, è un caso studio che ho esaminato sul mio profilo Instagram, dove ti aspetto per tante altre avvincenti storie di legge):
gli addetti della società Signal – società di messaggistica istantanea che sbandiera una spiccata tutela della privacy dei propri utenti – ha provato a creare delle sponsorizzate FB molto eloquenti in cui il testo stesso della sponsorizzata illustrava “il lato oscuro” dell’algoritmo.
I testi in questione recitavano più o meno così: “Vedi questa pubblicità perché sei un’insegnante di yoga, e sei un amante dei cartoni animati. Questa pubblicità utilizza la tua geolocalizzazione a Rimini. Ti piacciono i blog per genitori e stai pensando ad un’adozione LGBTQ”.
Inutile dire che queste FB ADS non sono mai state approvate.