L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk (ancora non avvenuta ma quasi certa e con trattativa già avanzata fino a qualche giorno fa e che pare, nei giorni scorsi, sia stata congelata con un twett dallo stesso Musk), ha riaperto quello che, col passar del tempo, diventa, più che un dibattito da social, una vera e propria domanda fondamentale da porsi, soprattutto all’interno del mondo della comunicazione digitale: esiste la libertà di espressione nel mondo dei social?
E la libertà è da cosa e da chi?
Chi può e chi deve garantire la libertà di espressione? E in che limiti? A quale titolo?
Su questo tema, giorni fa ho partecipato ad un interessante dibattito, come ospite del collega e amico, Avv. Andrea Lisi insieme al giornalista e analista digitale Stefano Gazzella.
Vi invito ad ascoltare e approfondire con noi e a seguire il format di Andrea Lisi su Youtube.
L’antefatto: Elon Musk acquisisce tutte le quote di Twitter (però poi ci ripensa. Forse)
il CEO di Tesla Elon Musk ha annunciato l’acquisto di Twitter. Non delle azioni, non una parte ma dell’intero social, molto utilizzato dal mondo della politica, dell’informazione e dell’approfondimento, oltre che ovviamente dagli utenti che ci trascorrono del tempo per commentare tutti gli argomenti riassumibili con un # (hashtag).
Negli ultimi giorni, tuttavia, ha cinguettato criptico: “Accordo temporaneamente sospeso”, che a noi comuni mortali non è che sia stato molto chiaro. Il buon Elon, con tale stop, dichiara di volerci vedere più chiaramente sull’impatto di profili falsi e spam sul social, altri sostengono che sia una strategia per abbassare il prezzo; a questo punto della storia, però, non sono le eventuali strategie di acquisizione a doverci far drizzare le antenne.
Perché la cosa ha destato tanto dibattito e scalpore?
Elon Musk è uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo e ha spesso espresso il suo disappunto nei confronti delle policy di shadowban (i.e. quando l’algoritmo limita la visibilità di un tweet) o di cancellazione dei profili che la piattaforma riteneva pericolosi, che diffondono messaggi distorti e notizie false.
Uno dei casi più eclatanti, sui quali Musk si era già pronunciato in modo contrariato, è stata la cancellazione definitiva dell’account di Donald Trump da Twitter (social molto usato dall’ex presidente USA), a seguito dei fatti di Capitol Hill il 6 gennaio 2021. NB: di fatto dopo quell’evento Trump è stato bannato anche da Facebook.
Trump a parte, il social dei cinguettii, fino ad oggi, si era distinto per una particolare attenzione nel proteggere gli utenti da fake news, molestie, revenge porn, messaggi di odio, attraverso una fitta rete di così detti “fact checker” (controllori della realtà dei fatti) .
Donald Trump non è che una vittima eccellente della censura di Twitter; tra gli altri nomi noti allontanati dalla piattaforma troviamo Courtney Love, Wiley, il repubblicano Paul Nehlen, il rapper Talib Kweli, la modella e ex Miss Portorico Destiny Vélez, e molti molti altri, rei, sempre secondo le regole di Twitter, di aver diffuso contenuti inappropriati.
Fino ad oggi i fact checker di Twitter hanno per lo più bannato momentaneamente o definitivamente account che, secondo le loro policy, erano divulgatori di:
- fake news;
- linguaggio violento e/o razzista;
- persecuzione online;
- stalking;
- revenge porn.
Non c’è dunque da stupirsi se un miliardario che acquista Twitter all’urlo di “Darò a tutti libertà di espressione” genera polemiche, dubbi, valzer di opinioni.
Al dibattito aggiungo una riflessione che non ho intravisto, fino ad ora: bellissimo che Twitter o chi per lui si senta paladino della protezione degli utenti ma a che titolo? In base a quali elementi e a quale cultura un contenuto viene ritenuto “dannoso”? Vi è forse qualche allineamento con i singoli stati? Pare di no. Pare che Twitter (e parliamo di questo come di tutti gli altri social) agisca in base alle proprie regole di utilizzo interne che, a voler pensar male, possono essere facilmente influenzate dalla corrente ideologica/politica dominante del momento.
Chi è titolato a dare libertà di espressione?
Siamo dunque di fronte ad un paradosso storico, in cui, quasi in una forma di “feudalesimo digitale”, come viene definito da molti commentatori, pochi “signori” con enormi possedimenti dettano regole che spesso entrano in contrasto con le normative nazionali.
Il busillis è che questi strumenti nascono e crescono nell’aura della neutralità della rete, del mezzo tecnico che è solo “un mezzo”; ma sappiamo bene, usando un po’ di sano senso critico, che oggi i social non sono più un mezzo come tanti, e le varie aziende e proprietari che ne dettano le norme di uso non possono più essere considerate come semplici aziende che erogano un prodotto o servizio.
Sono piattaforme potentissime che, tra l’altro, usano e scambiano dati e attraverso questi – non a caso definiti “Il nuovo petrolio” – orientano le scelte di acquisto, l’elettorato, l’opinione pubblica.
Cosa pensa (e auspica) una giurista [come la sottoscritta]
La collaborazione tra mondo social e Autorità statali non è impossibile: ci sono già importanti precedenti in cui le piattaforme social si sono “alleate” con gli Stati per fare qualcosa di buono (ammettiamo però che erano casi eclatanti e che avrebbero fortemente nuociuto alla reputazione della piattaforma in questione).
Ne è un esempio il caso in cui il social Tik Tok, ha collaborato con le Autorità giudiziarie italiane per rintracciare gli autori di una challenge che pare abbia portato alla morte una bambina palermitana lo scorso anno. Nella stessa occasione, a seguito dell’attività del Garante Privacy, Tik Tok ha effettuato una verifica a tutti gli account italiani, bloccandoli per un certo periodo fino a verificazione dell’età; nel caso specifico Tik Tok si dichiarava disponibile a implementare l’uso di sistemi di intelligenza artificiale che riuscissero a riconoscere l’età del minore in base al registro linguistico utilizzato, dagli argomenti trattati e altri elementi tipici affinchè non si riuscissero ad iscrivere o permanere sul social soggetti che non avessero legalmente la possibilità di accedervi. Il dubbio che mi attanaglia però è uno: l’algoritmo può essere così intelligente da capire se chi scrive ha 13 o 14 anni? Come si fa con scarti così minimi?
NB: in Italia l’età del consenso digitale per il trattamento dei dati è di 14 anni.
Sono diversi in realtà i casi in cui uno Stato (non solo quello italiano) ha preteso e ottenuto collaborazione dalle grandi major che gestiscono i principali social (e le loro potentissime banche dati) per cui è chiaro che la collaborazione su base legale (ma anche etica) tra Stati e social non è l’utopia che si vuole far credere.
Tornando alla libertà di espressione, essa è sì garantita ma anche regolata dagli Stati; lineare, no?
Tuttavia la libertà di espressione è un concetto complicato da concepire (e soprattutto attuare) soprattutto nella società liquida e dai confini inesistenti come quella dell’internet e che dà adito a molteplici interrogativi.
Il primo, colossale dubbio è: chi decide fin dove essa debba spingersi?
Probabilmente 30 anni fa, quando molti di coloro che invocano ora la censura, ora la libertà di espressione non erano ancora nati, ci saremmo lapalissianamente risposti che è la società stessa, nel tempo, a stabilirne in confini.
E’ la società con la sua storia, il suo lessico e i suoi taciti accordi che ritiene accettabile o meno un determinato tipo di espressione liguistica. Tant’è che, Paese che vai, norme che trovi.
Un esempio che ci tocca da vicino? La diffamazione.
In Italia esiste questo reato che colpisce coloro che offendono la reputazione altrui; e la cosa ci pare sacrosanta e giusta perchè nessuno di noi reagirebbe con aplomb britannico davanti ad un insulto alla propria madre (per dirne una su cui la maggior parte degli italiani sicuramente si troverebbe d’accordo).
In America, ad esempio, un corrispondente reato non esiste quindi, se va a dire ad un americano che ti ha diffamato probabilmente ti guarderà come se avessi un cappello di stagnola in testa e stessi cercando di captare segnali dallo spazio con la sola forza della mente!
Questo cosa ci dice quindi? Che, oltre alla società, è la sua storia a stabilire i confini.
In questo momento storico, però, pare che la società (esiste ancora? Possiamo ancora parlare di corpo sociale?) voglia abdicare al suo ruolo, lasciandolo in mano all’algoritmo di una macchina di intelligenza artificiale. Ovviamente la macchina, per quanto auto apprendente e “intelligente”, viene programmata da qualcuno con tutti i suoi bias cognitivi, i pregiudizi e, non ultimi, interessi di natura politica o prettamente commerciale.
Il “cosa” che fa rispettare questi confini imposti dall’alto nella società dei social sono in prima battuta gli algoritmi (che a me fa un pò ridere come i capcha: io devo confermare alla macchina di essere umano. La verità è che indicando i semafori e le biciclette contribuiamo ad addestrare l’algoritmo) poi arriva il “chi”, cioè i moderatori di contenuti umani. Ecco, questi ultimi sono quasi figure mitologiche di cui si sa poco o nulla ma, per quanto si riesce ad apprendere, pare che siano molto pochi, siano molto soggetti a burnout e che non restino molto a lungo nel loro ruolo lavorativo.
La moderazione di contenuti, comunque, è un problema enorme che è stato già affrontato e risolto da Facebook con l’istituzione dell’Oversight board. Lodevolissimo tentativo, certo, ma a me non convince del tutto. C’è sempre quel piccolo, insignificante dettaglino del “chi controlla il controllore?”; del resto, i soliti ben informati, sostengono che più che un’attività a favore degli utenti, l’Oversightboard di Fb sia un sindacato sull’operato dei moderatori.
Dopo il “chi decide cosa” un altro grande problema è sulle modalità di azione. Ebbene, spesso e volentieri ci si trova a non poter usare parole in sè potenzialmente “offensive” ma che, all’interno di un contesto specifico, non lo sono affatto. Eppure la censura dell’algoritmo non guarda in faccia nessuno, andando verso un serio appiattimento di pensiero e concetti.
La diversità crea dibattito e il dibattito nuove visioni e nuove possibilità di evoluzioni di pensiero. A sto punto, diteci già che possiamo pubblicare solo gattini – fino a che questi da qualche felinofobico che ha il potere di farlo, verranno considerati offensivi e non inclusivi – e risolviamo il problema alla radice.
Scherzi a parte, è necessario, e quasi vitale in questo momento, esercitare i propri diritti di critica come studiosi e cittadini. E’ fondamentale che si ponga un serio punto di riflessione politico e sociale sull’alfabetizzazione di tutta la popolazione sull’utilizzo della rete, dei social; una serie di NATTIQUETTE (c’era un tempo in cui erano presenti in ogni forum ed è lì che abbiamo imparato l’A,B,C, della comunicazione digitale) sulla corretta esposizione delle proprie (e altrui!) libere opinioni; una formazione sulla gestione dei massaggi di violenza e, ovviamente auspico ad uno studio più approfondito e un dibattito più presente sui diritti e i doveri di chi comunica sul web, ad ogni livello.
Intanto, è sempre bene ricordare che come cittadini, in Italia e in Europa siamo titolari di diritti che attraversano anche il wild web.
Tra questi
- diritto all’oblio
- diritto a non essere diffamati online: eccome come agire in caso di diffamazione online su qualunque piattaforma
- diritto di non essere perseguitati online: ecco come agire in caso di atti di bullismo e come agire in caso di revenge porn.
Ricordo inoltre che esistono varie regolamentazioni e azioni legali possibili contro i reati informatici che da utenti del web è sempre bene conoscere.